Riflessioni di un vecchio medico legale
DEL DISSENSO DEL PAZIENTE :
RIFLESSIONI DI UN VECCHIO MEDICO LEGALE
Prof. Dott. Alfonso Zarone
L. Docente universitario di medicina legale e delle assicurazioni
Primario emerito dell’Ospedale Cardarelli di Napoli
Il fondamento essenziale della liceità dell' atto medico e' rappresentato dal consenso del paziente per l’attuazione di qualsiasi intervento sulla sua persona: la nostra Costituzione (art. 32) sancisce infatti che nessun Cittadino può essere sottoposto ad alcun trattamento sanitario contro la sua volontà, salvo che non disponga diversamente una specifica legge.
Il consenso va pertanto considerato come elemento costitutivo della liceità dell'atto medico e fondamentale presidio di tutela del diritto di libertà del paziente, essendo egli, in via di principio, il solo che possa decidere se permettere interventi sulla sua persona.
Motivi di perplessità sorgono peraltro in alcuni casi, come quelli in cui la mancanza del consenso o la manifestazione di un dissenso all’esecuzione delle cure si proponga quando il paziente, in pericolo per la vita o esposto a gravi conseguenze sulla salute, bisognoso di assistenza medico-chirurgica indifferibile, consapevolmente rifiuti di farsi assistere e curare.
Si pensi, per fare un esempio - significativo per la sua semplicità e che pertanto facilita la comprensione del problema -, all’eventualità di una persona che abbia tentato il suicidio, poniamo per assunzione di un veleno, e che persista nel suo intento di cercare la morte, vietando al Medico che lo accolga nel pronto soccorso dell’ospedale di somministrargli l’ antidoto salva-vita!
Gli assertori della tutela ad oltranza del diritto all’autogestione della propria salute fino all’affermazione del “diritto alla morte” – invero inesistente nell’attuale assetto normativo- in un caso del genere quale condotta tecnica suggerirebbero al malcapitato medico responsabile di decidere il da fare, con assoluta immediatezza? Quella di rispettare la decisione dell’infermo ed assistere impotente alla sua agonia lucida, fino all’epilogo mortale?
Ma sono certo che quel medico, qualunque medico, in una situazione del genere non tradirebbe il giuramento ippocratico, non rinnegherebbe gli ideali che lo hanno spinto a scegliere una professione il cui fine è quello di curare, di lenire le sofferenze, non quello di assistere impotente all’agonia del proprio paziente, determinando con l’omissione di cure necessarie, la sua morte!
Per restare nel tema, emblematico è il caso, realmente accaduto e che ha occupato le pagine dei giornali, di una donna di sessantadue anni che, affetta da “gangrena gassosa”, nell’Ospedale S. Paolo di Milano ha rifiutato l’amputazione dell’arto ed in conseguenza di questa scelta è deceduta!
In queste eventualità l' ostacolo veniva superato nel passato, intervenendo sul paziente ed invocando a posteriori la scriminante della “stato di necessità” ex art 54 C.P.: comportamento che peraltro non sarebbe sempre lecito, secondo l’ orientamento attuale della giurisprudenza, che privilegia l’inviolabile diritto del cittadino di accogliere o rifiutare ogni intervento medico sulla sua persona.
Il problema non può essere visto solo secondo la ristretta e riduttiva visuale penalistica, la cui giurisprudenza nel passato sanciva l'illiceità intrinseca dell' atto medico, per violazione del consenso, ma lo sottraeva dalla sanzione, ex art. 54 del CP, se e quando presente “lo stato di necessità”: ciò non poteva ieri e non può oggi bastare per dare una risposta a tutti gli interrogativi, di ordine sociologico, deontologico-professionale e bio-etico!
Il rispetto della volontà del paziente che rifiuta le terapie e quindi il riconoscimento del suo diritto all’autodeterminazione in campo terapeutico è stato affermato da ripetute decisioni della Corte Costituzionale.
Il diritto all’autodeterminazione troverebbe la possibilità di essere contrastato solo nell’eventualità che il rifiuto possa indurre danno alla collettività -come nel caso di chi, ad esempio, rifiutasse di assumere antibiotici e di sottoporsi a vaccinazione nel corso di un’epidemia, favorendo così la possibilità di diffusione del contagio- ovvero nel caso di incapacità di intendere e di volere del paziente, nel qual caso la legge prevede, nel rispetto delle procedure previste, l’attuazione del T.S.O.!
Invero qualche seria perplessità permane ancora, a mio avviso, nella trattazione di una problematica così complessa e dai tanti risvolti etici, più numerosi questi ultimi di quelli strettamente tecnico-giuridici!
Cercherò di illustrare il mio pensiero, senza con ciò presumere di trasmettere messaggi dotati di…evangelica certezza! So bene che nel merito non può esservi convergenza di tutti i pareri, ma mi basterebbe il risultato di spingere il lettore ad un approfondimento del problema, senza coloriture e condizionamenti diversi da quelli medico-legali, quindi nel rispetto delle normative vigenti e rifiutando una interpretazione troppo elastica delle stesse.
Intendo esprimere quindi solo una mia opinione, ispirata da un’etica laica, che mi spinge a vedere l’uomo come cellula componente del tessuto sociale, nei confronti del quale egli deve riconoscersi portatore di doveri oltre che di diritti.
L' atto di scelta del Cittadino non può pertanto condurre, secondo il mio pensiero, alla determinazione di un danno certo alla sua persona, rappresentato dalla morte ovvero dall'invalidità, in quanto le normative vigenti non consentono di affermare, senza ombra di dubbio, l’esistenza del diritto assoluto a disporre della propria vita e della propria integrità fisica!
Il nostro ordinamento giuridico impone infatti la tutela della vita e della salute anche al di là della volontà del soggetto, tanto che punisce l'omicidio del consenziente (art 579 CP ), la partecipazione all'altrui suicidio (art 580 CP) e vieta gli atti che comportino la diminuzione permanente dell'integrità fisica (art 5 CC).
Questi articoli, di per se soli, non consentono pertanto di affermare, sempre e comunque, il principio del diritto assoluto alla gestione del proprio corpo e della propria salute!
La stessa Costituzione proprio con l’ art. 32, abitualmente invocato dai sostenitori dell’assoluta libertà del cittadino in tema di cure, avalla il principio della tutela della salute: "come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
Il Cittadino che attui comportamenti autolesivi segue quindi, secondo il dettato costituzionale, una linea di condotta antisociale, compromettendo, in conseguenza di un'invalidità prescelta e da lui direttamente condizionata, anche il suo obbligo di "svolgere, secondo la propria possibilità e la propria scelta, un'attività od una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" (Cost. art 4, II comma)!
Queste considerazioni si fondano pertanto sul rispetto delle normative vigenti e sulla loro corretta interpretazione: solo se il Legislatore riterrà di abolire o modificare sostanzialmente i precitati articoli dei Codici e quelli della Costituzione ogni ostacolo tecnico-giuridico potrà considerarsi rimosso sulla via della tutela del diritto alla libertà assoluta di gestione del proprio corpo e della propria salute, fino all’affermazione del “diritto alla morte”!
Non si tratta infatti solo di dare una risposta in chiave filosofica e bioetica –ambiti nei quali ognuno può esprimere liberamente il proprio pensiero- ma di porsi la domanda se, alla luce delle normative vigenti, sia possibile affermare l’assoluta liceità, sempre e comunque, di tale affermato diritto!
E, francamente, ad un vecchio medico legale, come chi scrive e che non ha mai interpretato i Codici e la Costituzione in politichese, sembra proprio di dover dare una risposta negativa a questa domanda!
I problemi per il medico coinvolto nelle drammatiche eventualità, cui si è fatto riferimento, lungi dall’essere risolti sono divenuti ancor più complicati dopo l’entrata in vigore della Legge N° 6 del 2004, che, come è noto, ha introdotto nel nostro ordinamento la figura dell’ “amministratore di sostegno” a tutela di chi, per infermità o per una minorazione psichica o fisica, versi nell’impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi.
Questa figura è stata accolta e considerata efficace anche in ambito sanitario per rappresentare la volontà del paziente, nell’eventualità che debba essere sottoposto ad intervento chirurgico e non sia in grado di manifestare un consenso o un dissenso consapevoli.
Conferma a questa interpretazione è nell’art. 408 del C.C., che, con altri articoli, di formulazione successiva all’entrata in vigore della L. 6/2004, prevede che “l’Amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”: e ciò consentirebbe, secondo un orientamento dottrinario, a mio avviso condivisibile, l’applicazione di questa norma anche in ambito sanitario, in ipotesi di consenso o dissenso all’esecuzione di cure.
V’è peraltro da riflettere sulle difficoltà che potrebbero presentarsi per il medico di un pronto soccorso in presenza di un infortunato in stato di coma - poniamo con un arto sanguinante da amputare- per il quale sia stata resa nota dall’accompagnatore l’esistenza dell’Amministratore di sostegno.
Che fare? Attendere l’intervento dello Stesso, dopo averlo fortunosamente e fortunatamente identificato e reperito, allo scopo di assicurarsi il suo consenso per eseguire l’amputazione dell’arto –concentrando così il rischio di morte dell’infermo- ovvero amputare l’arto, fiducioso nella tutela che gli assicura l’art. 54 del C.P. in ambito penale?
Con ogni probabilità il Medico, ispirato e condizionato dal giuramento ippocratico –“primum non nocère”- ,amputerà l’arto!
Ma siamo certi che in un caso del genere il Medico non sarà poi trascinato, dallo stesso infortunato cui ha salvato la vita, in un giudizio civile per il risarcimento del danno indotto dallo stato invalidante? In un caso del genere finirà che il Medico, per evitare di esporsi economicamente, solleciterà il suo Ente assicuratore per la liquidazione del danno, trovando a volte corrispondente disponibilità della Compagnia, che opererà per assicurasi la fama di efficace tutore dell’operato dei medici. E gli episodi analoghi così si ripeteranno, a vantaggio di alcuni personaggi che operano in ambito assicurativo: Avvocati di pochi scrupoli e sedicenti Medici legali.
Alla fine di queste storie di asserita “mala sanità” per vizio di consenso del paziente, tutto si tradurrà nell’ulteriore vertiginoso aumento del costo delle polizze: come al solito sempre e comunque a spese del Medico!
I problemi diverranno ancor più numerosi e complessi se sarà varata un’altra normativa: quella del cosiddetto “testamento biologico”, del quale oggi tanto si discute, anche sulle nostre riviste mediche. Molto più di quanto non si discuta degli ospedali che non funzionano perché male amministrati; dei vertici ospedalieri, a volte scelti, nominati e poi guidati dai politici di turno –di destra o di sinistra o di centro, a seconda delle Regioni…-, dei soldi negati all’assistenza sanitaria, della etichetta di “malasanità”, che prima ancora di verificare l’esistenza di colpe professionali, si impone ad ogni insuccesso terapeutico, e così via.
Il discorso del “testamento biologico”, per la sua vastità e peculiare specificità, esula dal fine di questo scritto, anche se mi sento spinto a non rinunciare del tutto ad esprimere un sia pur sommario parere.
In merito, v’è infatti da domandarsi come l’uomo della strada possa precisare quali dovranno essere gli interventi terapeutici da non attuare sulla sua persona, a priori e senza sapere quali saranno le patologie che in futuro potrebbero condurlo in limine vitae e privo della capacità di intendere e di volere!
Oltre tutto, può esser certo il “gennaro esposito” di turno che, di fronte alla realtà concreta della morte, imminente ma ancora evitabile, egli, qualora fosse in grado di manifestare la sua volontà, non potrebbe chiedere al medico di salvargli comunque la vita, anche con un intervento chirurgico demolitivo: quello vietato –per così dire… “a mente fredda”- nel testamento biologico?
Sulla base di queste considerazioni, non sarebbe molto più semplice ed efficace chiarire e ratificare, ope legis, le condizioni che devono sussistere per definire la realtà clinica dell’ ”accanimento terapeutico”? Realtà, che, se e quando accertata, potrebbe imporre l’interruzione di ogni cura, ad eccezione di quelle che servano a rendere meno produttivo di sofferenze il trapasso?
Non si potrebbe ideare ed articolare una procedura ad hoc, per ratificare, collegialmente e volta per volta, se le cure ulteriori debbano considerarsi espressive di un inutile “accanimento terapeutico”?
Sulla sospensione delle cure inutili e sulla condanna dell’”accanimento terapeutico” sono tutti d’accordo: i Medici, i cultori dell’etica laica e di quella religiosa, qualunque persona benpensante.
Un esempio illuminante dell’atteggiamento della Chiesa cattolica su questo tema ci viene dal rifiuto espresso dal Papa Giovanni Paolo II -ormai in agonia ma lucido e consapevole- di essere trasferito al Policlinico Gemelli di Roma!
Ed il Suo atto di volontà fu rispettato: il che consente di ritenere così affermato anche dalla Chiesa Cattolica il principio della liceità del rifiuto delle cure ormai inutili ed espressive solo di un inaccettabile “accanimento terapeutico”!
Io stesso, medico da cinquantanove anni, se oggi dovessi redigere il mio testamento biologico mi sentirei solo di dire: se sarò in stato di incoscienza, non accanitevi sulla mia persona per attuare cure ormai inutili, quando la morte sarà imminente e non vi sarà più alcuna possibilità di indurre migliorie del quadro clinico!
E sono certo che questo, solo questo, qualunque persona di buon senso farebbe oggi annotare nel cosiddetto “testamento biologico!
O forse mi sbaglio: ai posteri…